Un palco che unisce più di quaranta paesi con tre minuti di musica. Dove i giudizi contano, ma a colpire è chi osa davvero. Luci, emozioni e qualche colpo basso. Ogni anno è diverso, ogni volta è Eurovision
Chi non ha mai avuto un amico che, a maggio, sparisce tre giorni per chiudersi in casa davanti a una diretta in streaming piena di luci, glitter e cantanti che sembrano usciti da un universo parallelo? Ecco, quello è un eurofan.
Ma anche chi non ha mai seguito l’Eurovision Song Contest, almeno una volta si è imbattuto nel tormentone del vincitore dell’anno, nella polemica di turno o nel meme del cantante vestito da cetriolo alieno che urla in sloveno.
Eppure, dietro tutto questo spettacolo kitsch e fuori misura, c’è un meccanismo oliato da decenni, fatto di regole ferree, compromessi diplomatici e sorprese che non ti aspetti.
Il bello dell’Eurovision è che nessuno ci capisce mai davvero tutto, ma tutti hanno un’opinione. Intanto: non è un evento solo europeo. Possono partecipare anche paesi che con l’Europa hanno legami televisivi (tipo l’Australia), mentre altri, come la Russia, vengono esclusi in base al contesto politico. Non è un talent, non è un festival come Sanremo, non è una sfida tra etichette: è una cosa a sé, e funziona così da quasi 70 anni.
Ogni paese presenta un solo brano. Si parte con due semifinali, da cui escono venti finalisti. A questi si aggiungono i “Big Five” (Italia, Francia, Spagna, Germania e Regno Unito), che hanno sempre un posto garantito in finale. E poi c’è l’ospitante, ovvero il paese che ha vinto l’edizione precedente. Fanno 26 in tutto.
Ma è con il sistema di voto che si entra nella vera giungla eurovisiva: 50% giurie, 50% televoto. Le giurie sono composte da esperti musicali locali, il televoto è quello dei fan da casa. Nessun paese può votare se stesso, ma può dare fino a 12 punti al preferito.
Prima arrivano i voti delle giurie, uno per uno, con il classico collegamento dalla capitale e l’annunciatore pettinato di fresco. Poi il colpo di scena: il televoto cumulativo, che può ribaltare tutto. E spesso lo fa.
Negli ultimi anni, l’Eurovision si è dato una ripulita. Dopo alcune accuse di brogli tra giurie (2022), è stato introdotto il televoto “rest of the world”: anche chi vive in paesi non in gara può votare. Così, pure in Argentina o Giappone si possono dare punti al cantante norvegese con le ali di piume e l’autotune a palla.
Nel frattempo, le storie non mancano mai. Dalla vittoria dei Måneskin nel 2021 con tanto di polemica francese ai risvolti politici: l’invasione dell’Ucraina ha fatto saltare la Russia, Israele è stato al centro di contestazioni, e alcune votazioni sembrano più una dichiarazione diplomatica che un giudizio musicale, come la vittoria del 2022, a Torino, della Kalush Orchestra. Ovviamente ucraina.
La verità è che non vince solo chi prende più punti. Vince chi riesce a farsi ricordare. Vince chi si prende il palco come se fosse il centro del mondo per tre minuti. Perché, in effetti, lo è. E allora che sia un tripudio di costumi improbabili, lacrime vere, abbracci tra sconosciuti e quel senso di “sta succedendo qualcosa, ma non capisco bene cosa”. L’Eurovision è tutto questo. Ed è per questo che ci si affeziona. Anche solo per una sera.
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